Nel nostro strano Paese, all’interno degli apparati dello Stato, vi è sempre stato un meccanismo denigratorio contro coloro che non si omologavano agli andazzi, oppure manifestavano una minore sudditanza verso il capo di turno, subendo per questo una qualche forma vessatoria o denigratoria oltre al progressivo isolamento generale.
Quando, poi, vi era chi denunciava qualche andazzo compatibile con la rilevanza penale, scattava la tipica “difesa del proprio ufficio” o del corpo con tutte le complicanze in termini di “ritorsioni” sotto varie forme e, non sempre, tali da permettere la convivenza nello stesso ambiente di lavoro o che addirittura spingeva al mutare la scelta professionale in modo permanente.
Numerose sono state le espressioni in tal senso che ho potuto ascoltare nei confronti dei miei colleghi in uniforme quando ero in carriera, oppure rivolte tra colleghi quando collaboravo con le polizie giudiziarie e la magistratura, fino a ciò che ho ascoltato e letto sul mio conto.
C’è da capire che anche di fronte a funzioni importanti o ruoli apicali i meccanismi e le dinamiche relazionali sono le stesse della società civile, talvolta camuffate in un sistema gergale che caratterizza un ufficio con toni e termini tali da offrire una apparente cornice formale ad un linguaggio comunicativo in realtà non distante da quello comunemente usato dalla gran parte delle persone ma, appunto, dipinto di un ruolo che ne incrementa la funzione pubblica; scaduta la quale si potranno ascoltare le classiche espressioni italiane condite da parole meno urbane e da un fraseggio inter-azionale assai diffuso.
In tutto questo la psicologia assume una rilevanza molto importante, perchè crea un legame saldante tra i più abituati al codazzo verso il superiore, mediandone le responsabilità omertose e concorrenti alle pratiche vessatorie, stimola un percorso induttivo tale da ampliare la risonanza denigratoria fino al classico “se lo dican tutti vuol dir che è vero e, se lo dice il capo, è ancora più vero” ma, soprattutto, agisce nella struttura psicologica di chi ne è bersaglio, tra l’orgoglio ferito, il senso di abbandono da parte del gruppo-colleghi, la delusione del credo di corpo, la spinta di rivalsa fino alle conseguenze dell’isolamento, del mobbing e delle vessazioni che rischiano di trasformarsi in fonti stressogene anche pericolose proprio per la salute mentale e generale e, a quel punto, quando il soggetto crolla o si sfoga oltremisura, scatta il classico “è scoppiato, è sclerato, ha problemi mentali”.
Nella mia carriera da vessato, e lo dico ben lontano dalle dinamiche vittimistiche, mi sono visto descrivere prima come “frocio” quando ancora ero in servizio, quindi come “malato mentale” poi “mitomane millantatore” e, quando questo non consentiva la riduzione della mia credibilità nei fatti giudiziari si è passati all’uso estorsivo delle false accuse con tutto il loro valore in termini di pregiudizio e di condanna sociale, fino ad un frullatore di “attribuzioni” in tal senso che ancora oggi riverberano nell’eco dei 40 anni trascorsi.
Dare del “malato mentale” a qualcuno rientra perciò in quel fraseggio denigratorio assai diffuso, dalle località sciampistiche fino agli uffici di caserma e, nella maggior parte dei casi, manifesta solo qualche antipatia o dei conflitti non risolti ma non crea dei danni particolari.
Diverso è stato ed è nel mio caso, perchè di fatto sono considerato un “pazzo” nelle varie forme descritte di volta in volta dal megafono di turno ma, in realtà, non solo non è mai esistita e non esiste alcuna psicodiagnosi certificativa in tal senso ma, quando mi sono fatto periziare perchè in ogni caso come genitore di numerosa prole ho ritenuto giusto pormi in discussione, nulla di significativo è mai emerso sotto il profilo del disagio psichiatrico o sindrome di alcun tipo se, non, un indice di stress elevato da tenere sotto controllo, atteso la recente “schicchera” patita.
Ciò nonostante ho accettato io stesso di “passar per scemo” utilizzandone le opportunità di tutela come spiego in altri articoli del Blog.
La “pazzia” laddove avallata, ovvero è del tutto inutile di di non essere pazzi perchè è la prima cosa che dicono i pazzi, lasciandola così in favore del qualuquismo e del riduzionismo si trasforma invece in una forte risorsa per veicolare ciò che, razionalmente, sarebbe fin troppo oggetto di ritorsoni da parte di un sistema mentale generalizzato; motivo per ho giocato allo scemo in qualche occasione.
Rimane in me, come umanista, il dispiacere di assistere alla diffusa voglia delle persone nel mortificare il “malato mentale” indicato come tale, in virtù della esigenza dei più di un nemico da odiare e contro il quale proeittare ogni propria insoddisfazione.
Un malato mentale, vero, attiva il meccanismo della negazione e raramente prende coscienza delle sue dinamiche, per questo dovrebbe ricevere il giusto supporto sociosanitario e la consapevolezza che è preda della sua patologia e, non, il dito puntato contro…