due parole sul nostro strano Paese, dal senso di comunità alla mentalità clanica…

Sono ancora relativamente giovane per parlare come gli anziani di un tempo, ma inevitabilmente il confronto con l’evoluzione del nostro Paese mi costringe ad alcune riflessioni in merito alle dinamiche delle relazioni sociali tra le genti che abitano in Italia e nelle tante realtà territoriali che la compongono, anche di fronte ai meccanismi della globalizzazione che da un lato offrono numerose opportunità e, dall’altro, rischiano una omologazione depersonalizzante.

Osservo con attenzione la spinta identitaria nazionalista sempre più insorgente e non solo sotto il profilo politico quanto psicologico rispetto alle esigenze della collettività di una radicamento identificativo verso un polo di certezza, di sicurezza, di tutela di quel senso di appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, necessario per ogni società organizzata che si autoregolamenta con il confronto dei bisogni e delle necessità delegandone l’amministrazione ad un potere pubblico in grado di mediarne le esigenze con equità e giustizia.

Osservo anche, in assenza di una capacità di gestione basata sulla equità e sulla giustizia, la deriva verso il ritorno ad una mentalità clanica che sembra cozzare contro la stessa globalizzazione, contro il mondo a portata di mouse, contro le enormi opportunità di confronto offerte dal mondo stesso per superare i confini mentali dell’ignoranza nella quale, invece, ci stiamo rifugiando laddove sembriamo incapaci di un pensiero critico o, peggio, di criticare i pensieri imposti.

Una ignoranza che non nasce più dalla mancanza di una formazione scolastica o da un percorso culturale meglio coltivato, si genera invece dalla miscela tra la paura del porsi e porre in discussione ed il timore di esporsi assumendosi la responsabilità di un proprio confronto diretto e, per questo, sempre più forti sono quelle organizzazioni di massa indipendentemente dai colori politici e dalle lateralizzazioni ideologiche, per quanto in questo caso gli ambienti che inneggiano all’ordine ed alla disciplina sono più cooptativi di una disorganizzata protesta antagonista apparentemente più rumorosa ma non necessariamente incisiva.

La politica della paura ha sempre funzionato per indurre la collettività al bisogno di un polo forte, ora una espressione politica ora una personalizzazione della politica stessa con qualche personaggio carismatico ma, allo stesso tempo, il nostro strano Paese teme incosciamente il ritorno ad un regime identitario sempre latente in realtà, cedendo però alcuni diritti ora di fronte ad eventi terroristici destabilizzanti, ora a qualche pandemia oppure alle cosiddette esigenze geopolitiche aderendo passivamente al supporto di guerre con il rischio di assumere una psicologia bellica accettando per esempio rincari invasivi ed ingiustizie sociali causate dai mutamenti internazionali.

Stiamo perdendo quel meraviglioso senso di comunità che ci ha sempre caratterizzato, fatto di espressioni di solidarietà e di empatia perchè sapevamo riconoscerci uno nell’altro anche mantenendo i classici meccanismi sociali dell’invidia, delle malelingue e dei piccoli conflitti ma, di fronte ad una difficoltà comune, sapevamo fare gruppo e rispondervi con efficacia, anche in presenza di una minoranza che agiva un comportamento ambiguo o scorretto che però non incideva nel gruppo, nella comunità.

Oggi evidenzio invece i segnali di una atteggiamento difensivo e iperdifeso di natura clanica che con il senso di comunità ha poco in comune, basato sul riconoscimento dei propri componenti e non di tutta la comunità di un territorio per esempio, filtrato quindi dai requisiti di appartenenza e non più dal solo far parte, essere e condividere delle realtà e delle esperienze comuni.

Il senso di comunità consente perciò di restare sè stessi, la mentalità clanica rischia invece di necessitare di un elemento terzo a governo delle paure e delle difese, facendo scadere così i valori della comunità contro la tutela degli egoismi di quello che da comunità si trasforma in un clan, come tale mai forte e veramente coeso.

Il nostro strano Paese è vittima di uno stupro politico trans-generazionale da molto tempo ormai, con un trauma in prestito del quale non sappiamo riconoscerne le complicanze che affliggono la nostra capacità di autonomia, quasi perduta a tal punto che preferiamo delegare il nostro destino al primo apparente soggetto forte di governo invece di ancorarci a quella Democrazia che ci consente di restare noi stessi.

Restare sè stessi ha perduto però il suo significato, poco rappresenta nelle giovani generazioni omologate ad un gergo riduttivo ed alla spinte identificative esteriori, privati dal profondo valore formativo del restare sè stessi come mondo interno dal quale estrarre le giuste risorse per migliorare quello esterno, fatto anche di comunità sociali piccole medie e grandi. Osservo una immensa manifestazione di atuoreferenzialità autarchica la cui mediazione è data dal solo vantaggio comune da raggiungere a da difendere anche svendendo la propria dignità, il quale evita i conflitti oltemisura ma, se ci riflettiamo bene, viviamo in un perenne conflitto a bassa intensità anche solo nelle espressioni verbali e mimiche del nostro comunicare con gli altri da noi e con la prevaricazione dei propri diritti sui diritti altrui.

Restare sè stessi rappresenta il radicamento alla dignità di essere umani, di persone singole parte di un insieme e, non, di individui prigionieri del proprio egoismo che formano le masse formate a loro volta da tanti piccoli clan in cerca di vantaggi nella questua ad un potere che, con i tanti piccoli clan fa somma di un consenso che, per quanto politicamente utile, non raggiungerà mai il valore dell’insieme.

la Comunità esprime l’insieme, il cui consenso cambia la politica.

Il clan crea solo masse che consentono alla politica autoreferenziale di gestire il Paese…

F.