sui motivi della rinuncia all’empatia e dell’auto-deumanizzazione degli italiani…

Faccio parte di questo mondo da 56 anni, mondo che ho girato in gran parte e l’Italia tutta nella mia vita, adoro comprendere i luoghi e le genti pur restando alla giusta distanza dalle persone, per questo mi hanno sempre descritto anche nei rapporti giudiziari e d’intelligence come un solitario. In realtà vivo le amicizie e i momenti sociali serenamente ma in misura ridotta, senza vincoli ed obblighi di sorta.

Che cosa siamo diventati, noi italiani, dagli anni ’90 ad oggi, mi chiedo, quando osservo una frenetica massa in fuga dalla realtà, compressa in una bolla esistenziale stressogena e perennemente immersa in quel vittimismo autoassolvente rinforzato da una vittimizzazione alibizzante ogni responsabilità personale, politica, sociale.

Abbiamo ancora la consapevolezza di poter essere empatici? Ove l’empatia, dal greco en-pathos, è la capacità di sentire l’altro percependone le emozioni, lo stato d’animo, i sentimenti ma senza proiezioni bensì riuscendo a distinguere i nostri e mantenerli tali; l’empatia è la più grande opportunità relazionale che abbiamo la quale, associata alla intelligenza emotiva, si trasforma in una immensa risorsa relazionale con sè stessi e con gli altri da noi.

Osservo invece che la stiamo perdendo, questa risorsa, sostituendola con l’incapacità di porci in discussione proiettando negli altri il significato della fuga dalle nostre colpe, quasi incapaci di riconoscere la colpa stessa ed il suo valore di confronto e non di colpevolizzazione; dinamiche note nella evoluzione dell’uomo i cui meccanismi possono essere elaborati grazie all’intelligenza, alla pedagogia delle relazioni, alla stessa empatia e soprattutto alla riduzione del bisogno di un capro espiatorio che, invece, negli ultimi tempi è stato sempre più coltivato come strumento compensatorio delle realtà difficili e dolorose che non sappiamo affrontare.

La politica ha perduto la sua peculiarità pedagogica nella amministrazione di un Paese, e quindi anche delle emozioni che si sviluppano di fronte ai disagi di una vita sociale non equilibrata o condizionata da delle scelte politiche inique o incomprensibili agl’occhi delle genti. La politica non è perciò solo una mera burocratica funzione legislativa e amministrativa ma nel governo di maggioranza protempore vi è l’espressione del polso sociale di quella collettività votante che proietta le proprie convinzioni, ideologie e sentimenti sociali in un simbolo partitico delegato alla gestione della vita pubblica.

Almeno dal 1994 assistiamo però ad una iper-personalizzazione della politica stessa ed i cittadini non hanno più un confronto con un messaggio politico, con un programma prevalente espresso dal candidato di partito di turno ma, al contrario, sono invasi e pervasi dalla psicologia, dalle caratteristiche personali e dalle attitudini comportamentali e relazionali dell’esponente di vertice del partito, il quale o la quale si trasformerà in un soggetto-simbolo di consenso indipendentemente dal partito di appartenenza o dalla programmazione di governo.

La politica attuale, nella terribile personalizzazione dei capi, non cerca più soluzioni ai problemi ma colpe in chi li ha creati senza mai sentirsene parte, cooptando in questo la collettività che nella denigrazione, nella delegittimazione, nella proiezione verso l’altro trova ampia soddisfazione in misura di fuga dalla colpa ed allo stesso tempo quella gratificazione che proviene dalla de-umanizzazione dell’avversario e non solo in ambito politico o ideologico ma, anche e purtroppo, nelle basiche relazioni interpersonali, familiari e sociali.

Siamo sempre stati gente conflittuale e con difficoltà a percepire le proprie responsabilità, forse abituati anche da una facile tendenza a rifugiarci nella volontà di una entità superiore e come tali protesi alla sudditanza in attesa di un vantaggio, dal perdono ad una convenienza; sudditanza la quale non ha nulla in comune con il rispetto verso una autorità ma rappresenta invece la piena delega della nostra esistenza ad un livello superiore che spesso definiamo potere, al quale dedichiamo la manifestazione del nostro consenso nella speranza, appunto, di trarne vantaggio ma così facendo perdiamo il riconoscimento delle nostre risorse e ci abituiamo alla questua verso i potenti fino a ritagliarci una sorta di ribellione e di autonoma indipendenza nella sola scafatezza, nella furbizia, nell’opportunismo e sovente nello sfruttamento utilitaristico delle risorse altrui.

La politica ci considera quasi dei minus habens da dirigere e non una collettività di persone da amministrare, come tale ci tratta quando investe nei nostri bisogni prevalentemente di stomaco ignorando il confronto con le intelligenze, con il pensiero critico, con ciò che esprime il valore di ogni singola persona autonoma ed in grado di riconoscersi e riconoscere gli altri da sè.

Si rinforza sempre di più solo il nostro bisogno di un nemico contro cui proiettare quella intolleranza che proviamo perchè siamo incapaci di affrontare la frustrazione delle difficoltà e della responsabilità con la quale non sappiamo confrontarci appieno. La politica investe in questo ormai, nella denigrazione, nella delegittimazione della controparte tramite il gridato grimaldello delle idelogie e con quel silente invito nei confronti della collettività ad elaborare anche gli eventi più gravi, i quali potrebbero invece rappresentare quel momento di riflessione, attraverso una conclusione riduttiva, mediocre e banalizzante priva di umanità camuffata ora da destino cinico e baro ora nella colpa degli altri oppure, sempre più spesso, proiettando i motivi nelle vittime stesse.

In buona sostanza abbiamo un livello di politica pari a quella che potrebbe fare qualsiasi parente mediocre o vicino di casa o collega di lavoro con il quale confliggiamo da anni senza mai trovare una mediazione, priva di una base umanistica degna di empatia e di quella indispensabile capacità di sentirsi popolo e non di imporre al popolo l’identificazione nel capo di governo, come accade da molti anni indipendentemente dalla maggioranza di turno e, questo, avviene ormai pur di fronte alla volontà di un esponente di non personalizzare la politica.

Stiamo de-umanizzando le vittime delle guerre alle quali assistiamo passivamente, osserviamo senza empatia la morte di centinaia di persone sia nei teatri bellici che nel tentativo di traversare il mare, rischiamo di cibarci delle sofferenze altrui per digerire le nostre ignari che tutto questo ci porta alla perdita dell’empatia e della consapevolezza di riconoscerci come parte di una comunità. Non siamo dei lupi solitari o dei capi di branchi elitari di persone con presunte superiorità di razza o di bandiera ma siamo e restiamo individui con le stesse identiche dinamiche psicoemotive e relazionali, le quali subiscono le modificazioni in base ai condizionamenti esterni ma, se restiamo umani e come tali intelligenti, ci possiamo rendere conto che il riconoscimento dell’altro da noi e nel suo vissuto non potrà che arricchirci, indebolendo allo stesso tempo i tentativi di illuderci di essere migliori, superiori, elitari, forti per il solo camuffare la nostra debolezza sfruttando le sofferene altrui, camuffando tutto questo con i tipici slogan della mortificazione, della denigrazione, della delegittimazione e della sostanziale de-umanizzazione che facciamo volontariamente anche di noi stessi, quando, felici, sbaviamo rabbia di gioia nell’abbattere ciò che avversiamo o che ci viene indicato come un facile capro espiatorio.

Rischiamo di alzarci un mattino di sabato per trovarci riuniti ad inneggiare il nome di un capo, convinti che questi potrà risolvere tutti i nostri disagi, senza sapere che stiamo nascondendo le nostre responsabilità sotto le sofferenze altrui che non sappiamo più riconoscere e, quando lo facciamo, riusciamo solo a deumanizzarle per non prendere coscienza che chi soffre, è, come noi, non inferiore, non diverso e, come tale, ci dice che potremmo essere al suo posto prima o poi…

F.